Tre mesi d’insurrezione

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Un collettivo anarchico di Hong Kong valuta i successi ed i limiti della rivolta.

Intervista.

Abbiamo condotto quest’intervista con un collettivo anarchico che è stato attivo nella battaglia nell’arco delle ultime quindici settimane. Mentre ingerivano grandi quantità di gas lacrimogeno, hanno anche rimuginato su queste domande. Le risposte sono il risultato di molte notti insonni spese nell’introspezione e nel raccoglimento, mentre ogni membro del collettivo aiutava gli altri a colmare le lacune nei loro stanchi ricordi.

In che momenti il movimento si è stabilizzato? Cosa lo ha fatto crescere, diffondere e sopravvivere?

La “stabilizzazione” è stata probabilmente raggiunta il 5 Agosto, giorno del primo “sciopero generale” indetto. Sebbene non esattamente uno sciopero generale in termini tecnici, esso ha effettivamente bloccato gran parte della città per tutto il giorno. Sotto molti aspetti è stato un evento memorabile, sia per la sua estensione che per il fatto che per la prima volta uno sciopero è stato indetto sì da lavoratori, ma al di fuori delle unioni sindacali e per ragioni prettamente politiche (piuttosto che semplicemente economiche).

Allo stesso tempo, e nonostante il fatto che diverse stazioni della polizia siano state circondate – e, in alcuni casi soggette a continui attacchi, date alle fiamme o anche distrutte – gli eventi di quel giorno non hanno portato a termine molto in termini di risultati tangibili, mentre lo stato rimaneva in silenzio. Nessuno avrebbe potuto immaginare che quel giorno si sarebbe rivelato così glorioso come effettivamente fu, dal momento in cui la vendetta popolare sulla polizia si è espressa attraverso la città nelle forme più memorabili. Ma quello è stato in verità anche il momento in cui le persone hanno incominciato a percepire di aver fatto tutto il possibile per costringere il governo a rispondere, e l’euforia di quel pomeriggio iniziò a volgersi in esasperazione.

La rabbia verso la polizia è stato uno dei fattori principali ad aver spinto il movimento fin da allora.

Molti di voi devono essere al corrente della brutalità senza restrizioni della polizia di Hong Kong, una brutalità a cui la polizia ha avuto la licenza di abbandonarsi in misura sempre maggiore giorno dopo giorno. Questa è la stessa forza di polizia che fece di tutto per rivendicare il ruolo di essere “la migliore dell’Asia” dopo le rivolte di fine anni ’60 e di decenni di corruzione. Certamente deve essere stato traumatico per molti la perdita dell’illusione che Hong Kong sia una metropoli liberale in cui produttori e consumatori possano vivere indisturbati, godendo del traffico armonioso di opinioni e merci. Ma anche giovani diplomati all’accademia di polizia devono fare i conti con il proprio trauma, avendo perso la speranza di ottenere una mite e tranquilla carriera di promozioni regolari e bonus, senza alcun rischio di quella precarietà che caratterizza le occupazioni disponibili a coloro che hanno una limitata educazione.

Non proviamo alcuna compassione per la polizia, ma è chiaro come sia spinta da una furia sincera e irrefrenabile. Questa rabbia è ciò che li accomuna con coloro che brutalizzano – la differenza, ovviamente, sta nel fatto che sono autorizzati legalmente e incoraggiati a metterla in atto. Si rabbrividisce a pensare a che sorta di perversi discorsi motivazionali a là Full Metal Jacket vengano sottoposte le reclute da parte dei loro superiori prima di essere mobilitate nelle proteste, che sorta di discussioni disgustose possano avere sui loro gruppi Whatsapp, che altri mezzi usino per tenersi la bava alla bocca, costretti al guinzaglio ad aprire la testa di un manifestante. Mentre nessuno del nostro collettivo sa con certezza cosa avviene attualmente nelle stazioni di polizia nel momento in cui si viene catturati, ci sono ampie segnalazioni di tortura, abuso sessuale, e voci di stupro di gruppo verso manifestanti di sesso femminile.

Dall’altra parte della barricata si ha la sensazione che ogni escalation nelle tattiche che si sono susseguite a partire dal 5 agosto sia stata una reazione al crescere della violenza poliziesca e alle modalità con cui compagnie private facilitano questa violenza – come la compagnia che gestisce la MTR (Metropolita di Hong Kong), che ha guadagnato ingenti fortune costruendo centri commerciali privati e appartamenti adiacenti alle loro stazioni metro, o il New Town Mall, il centro commerciale che inspiegabilmente ha permesso a squadre di polizia antisommossa di prendere d’assolto e di cospargere di sangue i pavimenti di una delle più vecchie fortezze del consumo della città. La battaglia spesso assomiglia ad una faida di sangue tra polizia e manifestanti.

La settimana scorsa la polizia ha messo sotto assedio la stazione Prince Edward della metropolitana di Hong Kong. I poliziotti si sono precipitati in un vagone della metro, hanno iniziato a picchiare indiscriminatamente chiunque somigliasse ad un manifestante e lasciato le vittime sul pavimento della stazione in una pozza di sangue, vietandogli di ricevere cure mediche. Hanno trasformato la stazione in un campo di prigionia ermetico, facendo scomparire tre persone che si vocifera siano state picchiate a morte. Mentre la posta in gioco nel conflitto continua a crescere, anche la spirale delle ritorsioni sembra verosimilmente andare avanti. Con così tante persone ossessionate con le dirette in tempo reale, scioccate di ciò che sta trasparendo quotidianamente davanti ai loro occhi – giornalisti che perdono i loro occhi, spettatori che vengono arrestati per mettere in discussione l’autorità della polizia – è difficile spezzare questa ossessione verso la polizia, nonostante certe discussioni su LIHKG hanno iniziato ad appellarsi a coloro che sono coinvolti nella battaglia, nel tentativo di persuaderli a prendere in considerazione il disegno più amplio piuttosto che concentrare tutti gli sforzi esclusivamente in atti di vendetta popolare contro la polizia. Questo tipo di azioni sono anche incoraggiate dalla polizia stessa, che necessita di un alibi retroattivo e sensazionale per legittimare la propria attività – al punto tale che alcuni poliziotti sono stati colti mentre si travisavano dietro le barricate per poter lanciare bottiglie Molotov.

Restii come siamo nell’ammetterlo, questa battaglia prospera sulla violenza poliziesca. Dovremmo riflettere su questo.

Per esempio, l’11 agosto un medico in prima linea ha perso un occhio dopo essere stata colpita da un proiettile di gomma. Difficilmente è stato un “danno collaterale” accidentale – dal momento che ormai da un po’ la polizia sta mirando alla testa delle persone. Il giorno seguente c’è stata un’enorme mobilitazione all’aeroporto, con un Meme diventato virale che richiedeva alla polizia di restituire un occhio, alimentando di un potente impeto emotivo gli eventi di quel pomeriggio. Quella stessa sera, i manifestanti hanno compiuto l’arresto di un cittadino dopo aver catturato due persone sospette di essere agenti del partito comunista cinese, e si sono scontrati con le squadre della polizia aeroportuale.

Finché la battaglia continuerà ad essere alimentata dall’indignazione popolare suscitata dalle prevaricazioni poliziesche, supplicando un tribunale superiore di portare davanti alla giustizia la polizia – sia esso rappresentato dagli Stati Uniti, il mondo occidentale, o le Nazioni Unite – il suo slancio non potrà che essere contingentemente legato alle provocazioni della polizia, e rimarrà arenato a quel punto preciso che le battaglie sociali di Hong Kong non sono state ancora in grado di oltrepassare: e cioè l’onesta indignazione del cittadino.

Cosa accadrà quando l’indignazione civica rispetto a questa o quella ingiustizia sarà esaurita? Il doversi situare sempre su di un terreno di superiorità morale è davvero necessario per coloro che sono coinvolti in questa battaglia, per legittimare le loro attività illegali esclusivamente come una reazione agli eccessi statali? Come possono prendere l’iniziativa e passare al contrattacco? Questo non significa necessariamente colpire in anticipo in senso fisico, ma piuttosto “diventare-attivi” nel significato di cui parla Nietzsche, sciogliendosi cioè dalla “moralità degli schiavi” di dipendenza dal, e fascinazione per, il nemico.

Lo scandalo della violenza della polizia ha polarizzato la città a tal punto che interi quartieri sono scesi in supporto di manifestanti vestiti di nero dotati di maschera antigas radunati fuori dalle stazioni di polizia di vari distretti. Il più emblematico tra questi eventi ha avuto luogo in Wong Tai Sin e Kwai Chung, dove centinaia di persone sono scese in piazza in pantaloncini ed infradito per ammonire la polizia, facendo innervosire talmente tanto un ufficiale da fargli puntare contro un fucile carico su civili disarmati. La violenza poliziesca è anche servita a far organizzare vari quartieri intorno a degli obiettivi. Per esempio, nello sforzo di contrastare la disinformazione diffusa dai mezzi di comunicazione mainstream, alcune persone hanno tenuto proiezioni di quartiere in piazze pubbliche, in modo da rendere manifesto attraverso filmati cosa stava realmente accadendo. Allo stesso modo, lo spazio adiacente al centro informazioni del New Town Mall in Sha Tin è stato trasformato in un ufficio di controinformazione, presidiato da manifestanti sempre disponibili a chiacchierare con passanti curiosi. Nello stesso tempo, i “Lennon Walls” che sono sorti in ogni quartiere, di solito intorno alle case popolari, sono diventati sia degli spazi conviviali che dei luoghi di scontri cruenti e furia omicida. Per quanto banale spesso possa essere il suo contenuto, è stato ad esempio necessario difendere i muri di post-it contro piromani notturni e delinquenti muniti di coltello. Queste iniziative di quartiere sono memorabili ed importanti. Potrebbero infatti indicare una via d’uscita dall’impasse presente, puntando verso un nebuloso futuro organizzato in comune.

Questo ci porta al nostro punto finale, riguardante la domanda su cosa faccia sopravvivere il movimento. Un aspetto che sorprende gli amici che vengono a visitare Hong Kong da altre parti del mondo, è l’unità e l’unanimità del movimento, che ha visto insorti di credi ideologici e retroterra più disparati lavorare insieme su azioni concrete, piuttosto che battibeccare su sottigliezze ideologiche. L’aderire a questa unanimità è stato quasi religioso, un mantra che è stato ripetuto ad nauseam nelle message boards ogni volta che sorge una disputa che può mettere a repentaglio l’unità. L’importanza di questa solidarietà agli occhi di tutti, questo consenso che tiene unita la massa contro gli sforzi continui dello stato di sfruttare ogni divergenza all’interno della battaglia, è sintetizzato in una dichiarazione ad un tempo eccessiva e divertente: “Non scomunicherò nessuno dalla battaglia, anche se dovesse decidere di far scoppiare una bomba atomica.” Il divario tra pacifisti e insorti lancia-Molotov è ancora profondo, ma questi non sono ruoli scolpiti nella pietra. Mentre le fila di chi si trova in prima linea continuano ad essere decimate da arresti di massa, alcuni che erano semplici spettatori qualche settimana fa stanno andando a colmare questi vuoti. Le varie message boards e i canali Telegram offrono circuiti di comunicazione per scambiare riflessioni e feedbacks dopo ogni battaglia. Questo è straordinario sotto molti punti di vista; è indubbiamente un risultato formidabile che si è protratto per così tanto che plausibilmente persisterà ancora per molto tempo.

Allo stesso tempo, l’osservanza di questa unanimità oscura problemi sistematici all’interno del movimento e proibisce alle persone di valutarli, problematica su cui getteremo luce ulteriore più avanti nel corso dell’intervista. Va da sé che bisogna sostenere la morale delle persone in un movimento di massa, che bisogna costantemente partecipare del clima affettivo delle lotte, che le persone dovrebbero sostenersi l’una con l’altra in momenti di disperazione e agitazione. Ma quando questa atmosfera affermativa maschera un’avversione verso le differenze, le divergenze e la discussione per paura di perdere persone e diminuire l’afflusso alle manifestazioni, l’ottimismo comincia a diventare indistinguibile dalla paranoia – e la singolarità di ogni persona presente è effettivamente annientata, nel momento in cui si è ridotti a semplici corpi ammassati contro altri.

Questa atmosfera rende molto difficile condurre una critica, specialmente riguardo a questioni altamente controverse come lo sventolare di bandiere americane o coloniali. Nell’intero corso delle lotte il principio liberale della tolleranza è stato usato come arma in una maniera mai vista prima – fratelli e sorelle voi avete le vostre opinioni ed io ho la mia, ognuno di noi rispetta reciprocamente il diritto di avere opinioni contrastanti, fino a quando queste non minacciano di creare antagonismi tra di noi. Il fatto che ha funzionato finora non significa che esso sia salutare per il futuro delle lotte sociali di Hong Kong. Questo tipo di cultura pretende di non marginalizzare nessuno, mentre invece effettivamente marginalizza tutti, nel momento in cui esclude ognuno dall’avere a che fare con interrogativi che possono risultare dolorosi, inquietanti e destabilizzanti, domande che ci richiederebbero di sondare in profondità e confrontarci con le condizioni che ci costituiscono in quanto soggetti. Per fare questo dovremmo andare al di là del trauma degli eventi immediati e confrontarci con un trauma di dimensioni più grandi – l’“ordine” a cui partecipiamo nel momento in cui lo riproduciamo continuativamente.

Dopo tutto, è questo stesso “ordine” che rende alcune persone effettivamente invisibili. Per esempio, pochi si sono fermati a considerare la tragedia delle lavoratrici domestiche straniere nel corso degli ultimi due mesi. Di solito, ogni domenica queste donne si riuniscono in massa nelle piazze pubbliche dei quartieri principali, tra cui Central, Causeway Bay, Mong Kok e Yuen Long, ognuna delle quali è stata spazzata dagli scontri negli ultimi conflitti. Non avendo accesso alle mappe in tempo reale che sono state create per i manifestanti, spesso non vengono preavvisate nel momento in cui queste aree vengono “gassate”. Di conseguenza, sono costrette ad andare da qualche altra parte nel loro unico giorno libero. Questa situazione sarebbe una conseguenza delle lotte sfortunata ma accettabile, se solo i manifestanti facessero qualche tipo di sforzo per ammetterlo e trasmetterle il loro supporto.

Di solito, la situazione delle lavoratrici domestiche passa inosservata nonostante il fatto ci siano così tante famiglie in città che le impieghino; praticamente nessuno riconosce la coraggiosa e prolungata protesta da loro organizzata attraverso sindacati indipendenti contro gli accordi tra i loro propri governi, le agenzie di collocamento e il dipartimento del lavoro di questa città. Il loro supporto attivo e la loro comprensione perspicace delle lotte sociali passano inosservati. Contemporaneamente invece, altre persone attive nel movimento contro la legge sull’estradizione fanno di tutto per sollecitare la simpatia di onesti cittadini del “mondo libero”, dedicando tempo a spiegare la condizione di Hong Kong ai turisti che arrivano all’aeroporto.

Questo è attualmente uno dei punti deboli principali nelle lotte. Essendo stato tralasciato, è culminato recentemente in una grottesca a imperdonabile campagna contro le lavoratrici domestiche immigrate che passano il tempo nelle piazze pubbliche dove gli scontri hanno avuto luogo. Lungo l’arco di alcune settimane, sono apparsi diversi threads su LIHKG che si domandavano il perché alle lavoratrici immigrate fosse concesso di riunirsi e fare picnics per strada mentre i dimostranti fossero arrestati e torturati per partecipare ad “assemblee illegali.” Il loro tono ironico non riusciva ad occultare le implicazioni rivoltanti del loro contenuto. Perché due pesi e due misure, chiedevano questi posters – non dovremmo spingere queste disinvolte zie che si godono la vita a capire in che razza di città vivono mentre i dimostranti temono per la propria pelle? Perché a noi è stata negata l’autorizzazione a protestare mentre loro potevano fare festa nelle strade senza nemmeno dover presentare una richiesta formale a qualche ufficio governativo?

Tutte queste assurdità sono arrivate al culmine qualche giorno fa, quando alcuni completi idioti hanno iniziato ad incollare su ponti e arterie pubbliche alcuni adesivi dichiaranti che tutte le lavoratrici immigrate non sono le benvenute a passare il loro tempo in luoghi pubblici senza avere un permesso. Questi adesivi disgustosi rappresentano la portata tragicamente bloccata della situazione, il modo in cui i dimostranti hanno cercato di comunicare con la popolazione considerevole di lavoratrici immigrate, il cui dramma nessuno ha avuto il tempo di contemplare – prima, durante e presumibilmente anche dopo queste lotte.

Indubbiamente coloro che hanno fatto e attaccato gli adesivi non devono essere considerati rappresentativi del movimento in generale, ma allo stesso tempo non sono stati denunciati pubblicamente.

L’ “ordine” che caratterizza la vita quotidiana di questa società riproduce anche la dannosa cultura sessista che ha ripetutamente risollevato la testa all’interno del movimento. Diversi manifestanti hanno scoperto i profili Instagram di agenti di polizia di sesso femminile e le hanno iniziate a chiamare puttane, aggiungendo che gli piacerebbe violentarle; e allo stesso tempo hanno schernito gli agenti di sesso maschile dicendo che le loro mogli stanno in giro a scopare altri uomini mentre loro passano il tempo a spruzzare gas sulla folla fino a tarda notte; altri manifestanti uomini, teste calde che si autocelebrano, impediscono alle donne di raggiungere la prima linea, o promettono sulle message boards di “difendere le loro donne” dall’essere catturate e violentate dalle forze di polizia. Quando le prime notizie di abusi sessuali e possibili violenze nelle stazioni di polizia hanno iniziato a diffondersi, e varie donne su LIHKG hanno pensato di organizzare delle parate femminili, gli uomini hanno iniziato a provare terrore all’idea che le loro donne avessero l’idea di marciare per conto loro senza la protezione degli uomini. Questo ha portato a quello spettacolo ridicolo di vedere uomini giurare che anche se non gli fosse permesso di marciare insieme alle loro sorelle, loro sarebbero stati alle spalle della manifestazione completamente equipaggiati e pronti a difenderle fino alla fine. Questa era la loro idea di militanza.

E non stiamo riportando tutti quei casi di ulteriore proliferazione della cosiddetta “cancel culture” [il boicottare, cancellare e marginalizzare personaggi per lo più pubblici che hanno sostenuto opinioni impopolari, nota del traduttore], che fin troppo spesso culmina in un bigotto disimpegno, in una paternale moralista, e nel perpetuarsi della stratificazione sociale; e nessuna di queste istanze fa nulla per cambiare le relazioni sociali in cui noi tutti siamo catturati. Piuttosto, vogliamo prendere atto della confusione in cui ci troviamo e il fatto che questo caos è molto più complicato della semplicistica narrazione per cui c’è un popolo oppresso e perseguitato spinto con le spalle al muro da una implacabile macchina per uccidere “comunista”.

Fino a quando questi problemi verranno trattati come tangenziali o demoralizzanti in base al fatto che l’esigenza più pressante sia quella di sconfiggere la grande bestia cinese, vedremo ben pochi progressi nel realizzare il preteso obiettivo di queste lotte, cioè “la liberazione di Hong Kong.”

Quando ci siamo sentiti a giugno, hai descritto un nuovo slancio sociale nascente, una specie di populismo nazionalista senza testa che sorgeva dai fallimenti dei movimenti pacifisti, democratici e parlamentari. Sono già emersi nuovi capi, nuove narrazioni e strutture interne di controllo? Si sono aperte nuove cornici o orizzonti per cui le persone potrebbero combattere o immaginarsi al di là della sovranità nazionale?

No, le cose non sono cambiate drammaticamente dall’ultima volta in cui abbiamo comunicato. La comprensione generale è quella che coloro che prendono parte al movimento debbano parlare con una voce unanime, collettiva e consensuale, opponendosi alla molteplicità di voci differenti, e potenzialmente non concordi.

Nei gruppi Telegram e nelle message boards si incontrano occasionalmente voci che chiedono l’indipendenza di Hong Kong; mentre non si può sfuggire al presentimento che questo desiderio sia tacitamente condiviso da un buon gruppo di partecipanti alle lotte, allo stesso tempo questi sono spesso messi a tacere sia per paura che il movimento perda di vista i suoi obiettivi immediati (le cinque rivendicazioni) che a partire da una circospezione generale circa i pericoli derivanti dall’articolazione di un simile desiderio – come i politici dell’establishment hanno ripetutamente asserito che questa lotta non sia veramente per le cinque rivendicazioni ma piuttosto sia una “rivoluzione colorata” organizzata da poteri stranieri e dai separatisti, narrazione che la stampa cinese ha ripetutamente ripetuto e reiterato.

Inoltre, rimane il fatto che per i molti che continuano ad attraversare il confine per lavorare o per altre motivazioni personali, l’indipendenza di Hong Kong non sarebbe uno sviluppo gradito. Ci sono molte persone che vogliono semplicemente vedere osservata e rinforzata la disposizione “un paese, due sistemi” che era stata delineata nella legge fondamentale. Per gli amici stranieri che non sono familiari con il clima politico e culturale di qui, dobbiamo sottolineare che – quantomeno nelle nostre valutazioni – le dicerie circa un imminente rovina del liberalismo come cultura politica sono infondate, almeno per quanto riguarda Hong Kong. Vorremmo arrivare a suggerire che la logica del liberalismo, intesa come una specie di intuitivo “senso comune”, potrebbe essere addirittura più forte qui che in ogni altra zona del mondo. Molto di questo ha a che fare con il contesto che abbiamo delineato nella nostra intervista precedente, per il fatto che questa città è stata costruita da rifugiati scappati dalla Cina comunista. Il seguente aneddoto illumina le maniere in cui questa condizione non è endemica semplicemente ad Hong Kong, ma è condivisa anche con i parenti della terraferma.

In un incontro riguardo l’arte e la politica che ha avuto luogo qualche anno fa, uno di noi ha partecipato ad una discussione con un caro amico di una certa capitale punk rock cinese, dove la resistenza contro la gentrificazione e la costruzione di “parchi a tema ecologici” è costante. Continuando a parlare fino a tarda notte, tra bere e canne, quello stesso amico ha iniziato a raccontare le difficoltà nel parlare di anarchia in Cina. Come Mao ha reso così esplicitamente chiaro nei sui Quaderni Rossi e nei suoi saggi, il Partito Comunista rappresenta la forza anarchica, il “potere costituente” che trascende e rafforza l’archè come meglio crede, istituendo uno stato d’emergenza permanente in nome della rivoluzione; conseguentemente, la vita quotidiana in Cina è “anarchica” ad un livello ordinario. Vale a dire – quando i compagni in Occidente parlano di “uso” (nel senso in cui Agamben utilizza il termine ne L’uso dei corpi) riferendosi all’occupazione di piazze, all’organizzazione di feste per le strade e così via, questo termine perde il suo significato in Cina, laddove questo “uso” delle strade e delle arterie pubbliche in diverse aree del paese è un evento quotidiano, non essendoci procedure stabilite che distinguano l’uso corretto dall’uso eccezionale dello “spazio pubblico.”

La polizia cinese ha il permesso di agire interamente al di fuori della loro competenza professionale, comportandosi in maniere che sarebbero incomprensibili da qualsiasi altra parte del mondo. Per esempio, fino a poco tempo fa, i nostri amici del summenzionato distretto cinese hanno gestito uno spazio che offriva eventi culturali aperti ai compaesani che vivono nella zona circostante. Questo spazio era aperto a tutti, essendo la porta aperta ad ogni ora; vagabondi e senza tetto barcollavano dentro, spesso rimanendo lì per giorni o settimane. Questo ha anche significato che poliziotti in borghese entravano nello spazio quando erano “fuori servizio”, offrendo come regalo sigarette americane, alcool e passaggi in macchina verso la città, facendo gli amiconi con gli abitanti dello spazio, lasciando chiaramente capire che la polizia era decisamente consapevole del fatto che i partecipanti si stavano opponendo alla gentrificazione di quell’area.

“Noi siamo amici – non vorrete mica combinare casini e rovinare la nostra amicizia?” Gli stessi poliziotti si comportavano allo stesso modo con gli abitanti del villaggio della zona, bevendo tè nelle loro case e facendo regali, mentre gli ricordavano gentilmente che frequentare lo spazio sopra la collina era molto sconsigliato, in quanto sarebbero potuti diventare persona non grata se si fossero mescolati con le persone che vivono lì. Una situazione orribile senza ombra di dubbio. In queste condizioni, in cui ognuno è costretto a vivere in uno stato d’eccezione permanente, invischiato in reti elaborate di sorveglianza formale e informale, il nostro amico ci ha raccontato che per molte persone, il liberalismo – lo stato di diritto, un diritto che rafforzerebbe la proprietà privata, adeguati limiti che loro immaginano salvaguarderebbero l’individuo dai poteri statali – è sembrato essere la cosa più radicale che ci sia.

Quando amici vari ci chiedono perché il discorso e la retorica “anti-capitalista” sembrano così stravaganti per le persone ad Hong Kong, ci troviamo a rispondere che è un fatto di circostanze e contesto. Per gli abitanti di Hong Kong il capitalismo rappresenta l’impresa, l’iniziativa e l’autosufficienza, che loro contrappongono al nepotismo corrotto del partito, ai capitani d’industria e ai politici che si ingraziano la compagnia di questo cartello. Aldilà del capitalismo, tuttavia, troviamo la sacralità della legge che rimane l’orizzonte trascendente oltre il quale le lotte sociali devono ancora andare. Si, chiunque in ogni parte del mondo continua ad essere testimone degli atti di eroismo a cui le magliette nere prendono parte ogni giorno – riducendo in macerie le facciate e le macchine delle stazioni della metro, devastando stazioni di polizia e via dicendo – ma rimane ancora la credenza latente che tutto ciò viene fatto in nome del preservare lo stato di diritto e le istituzioni che il personale specifico avrebbe tradito.

Visti sotto questa luce, tutti questi atti di illegalismo possono essere compresi come mezzi per ricordare alle autorità che il “mandato dal cielo” gli è stato revocato. Mentre può sembrare “mitologico” utilizzare un concetto arcaico per descrivere eventi contemporanei, come se stessimo parlando di un “inconscio collettivo e millenario cinese” che si è protratto dalle dinastie antiche fino al giorno d’oggi, in realtà rimane appropriato perché ogni cosa ci porta a credere che continuiamo a vivere nel mondo e nel tempo del mito. In quale altro modo potremmo spiegare ad esempio gli appelli ai cortigiani della “comunità internazionale”, utilizzando i mass media internazionali come tribunale attraverso il quale speriamo di guadagnare un’udienza con l’imperatore – in questo caso, gli Stati Uniti? Lì rimane la fiducia che la criminalità degli stati canaglia che ci governano possa essere portata davanti alla giustizia e punita ad una corte d’appello più elevata, nel nome di diritti naturali ed elementali che sono stati violati alla luce del sole.

Crediamo che da qualche parte, anche se solo nei cuori delle persone rispettabili e di buon senso di ogni dove, ci sia un senso di solidarietà con questa legge trascendente e primordiale, che la giustizia sarà fatta, che questa discenderà dal cielo.

È tutto così tristemente kantiano in effetti. I difetti della polizia locale non riescono a far nulla nello screditare l’Idea della Polizia, che arriverà prima o poi in qualche giorno messianico.

Quindi la domanda che il movimento si è posta sembra essere stata questa: cosa sarebbe necessario per costruire un caso che costringesse la polizia all’azione? Come possiamo convincere i magistrati che questa crisi debba essere in cima alla loro lista di priorità? Noi siamo qui, raccogliendo e archiviando prove sui nostri stessi corpi, accumulando ritorsioni e lutti da ogni parte nell’inchiesta su di un Paese disgregato, sollecitando influencers di ogni dove a parlare a nostro nome, nella speranza che tutto questo sangue sarà riscattato da accuse e da legittime punizioni. Nel momento in cui la disobbedienza civile si intensifica diventando danneggiamento di proprietà, scontri in strada, occupazione di aeroporti e scioperi generali, incontrando solamente l’indifferenza statale, allora l’immaginazione popolare comincia a concepire maniere di accelerare la catastrofe finale, l’arrivo dell’Esercito Popolare di Liberazione ad Hong Kong, un evento che molti prevedono possa agire da catalizzatore per l’intervento internazionale. Sicuramente a quel punto la polizia non ci ignorerebbe più?

Questa sarebbe la teoria del disastro apocalittico che sta iniziando a circolare su LIHKG e da altre parti, accogliere cioè la fantasia di un “crollo comune”, di un “bruciamo tutti insieme”, nella quale i manifestanti immaginano la città venire ingoiata in un abisso, mentre si aspettano le sanzioni internazionali contro un Partito Comunista arrivato alla furia omicida. In questo scenario apocalittico, come conseguenza delle tensioni che vanno diffondendosi sulla terraferma come una specie di primavera araba, la Cina – vacillando per la pressione dell’inasprimento dell’embargo commerciale internazionale – si balcanizza e frattura in una molteplicità di territori, ognuno dei quali formalmente e giuridicamente indipendente (come Fujian, Wuhan, Xinjiang), accanto ad un Hong Kong democratico, che potrebbe formare uno stato con Canton (Guangzhou).

Mentre le conseguenze di un tale sviluppo sono lasciate inesplorate – per esempio, il fatto che questi territori “autonomi” verrebbero dominati ugualmente da burocrati del partito – questa prospettiva speculativa è quantomeno ben accetta su di un livello. Se non altro, rappresenta uno sforzo di fare i conti con un futuro che potrebbe essere completamente differente da quello a cui siamo stati abituati in momenti di benessere – un futuro nel quale l’accesso ad internet potrebbe venire meno, nel quale dovremmo lavorare collettivamente per assicurarci da mangiare, l’acqua e l’elettricità – queste domande essendo ormai diventate un imperativo nel momento in cui il mondo continua a cadere a pezzi ed il disastro ecologico incombe minacciosamente all’orizzonte.

Per altri, la catastrofe qui immaginata viene vista come un mezzo attraverso il quale restaurare il posto che spetta ad Hong Kong tra le principali città del mondo, fatto che è testimoniato da uno degli slogan più popolari delle lotte: “Riporta Hong Kong alla gloria, rivoluzione dei nostri tempi.” La “gloria” a cui si fa riferimento nello slogan è meramente una fantasia di una purezza originaria – l’Hong Kong del duro lavoro, l’iniziativa individuale dell’onesto e imprenditoriale uomo comune, la cui esistenza non è contaminata dagli intrighi della grande politica.

Mentre va bene ipotizzare una situazione di comune rovina, perché non possiamo anche pensare a creare le basi materiali per ognuno per crescere e prosperare insieme? E cosa potrebbe significare questo “insieme”, chi comprenderebbe, quando ognuno che noi escludiamo abitualmente da questo disegno – minoranze etniche, nuovi migranti dalla Cina, continentali che stanno aspettando il diritto di residenza – è così strettamente implicato nel futuro della città? Perché siamo portati a credere che queste domande dovrebbero essere rimandate al momento in cui un governo sarà eletto per affrontarle, dal momento in cui esistono qui e ora all’interno delle lotte così tante istanze di autonomia che potrebbero servire come premesse sulle quali sviluppare adesso questi discorsi?

Quasi tre mesi nei disordini. Quali sono gli obiettivi e le strategie – dichiarati o impliciti – delle diverse correnti all’interno del movimento?

Come accennato prima, l’intenzione tacita delle lotte in questo momento è quella di cercare i mezzi per intensificare la situazione finché la “comunità globale” sia costretta ad intervenire. Mantenere mobilitazioni di massa e creare spettacoli virali che possano essere disseminati su reti internazionali – quali le “catene umane” di manifestanti che si tengono le mani sui marciapiedi e, più recentemente, fuori dalle scuole secondarie durante gli scioperi degli studenti – mantiene le lotte al centro dell’attenzione pubblica. Più nell’immediato, il sabotaggio continuativo nella metropolitana, nei centri commerciali affollati, e in luoghi quali l’aeroporto – includendo lo scovare da parte dei manifestanti di nuovi modi di bloccare il traffico che va verso l’aeroporto senza violare la lettera della legge – si pensa possa avere effetti visibili sull’economia, il traffico del turismo, gli investimenti esteri, e così via.

Contemporaneamente, le misure di contro sorveglianza sono diventate pratiche consuete, incluso l’abbattimento dei “lampioni smart” equipaggiati di RFID che sono stati installati in diversi quartieri, e il coprire di spray e la demolizione delle videocamere CCTV prima delle grandi manifestazioni.

Tutto ciò porta verso una comprensione intuitiva della realtà che il blog Dialectical Delinquents ha delineato molto bene lungo il corso di diversi anni (e noi li ringraziamo per i loro minuziosi e continuativi sforzi nel tratteggiare i contorni di questa realtà, che emergono velocemente): Hong Kong è pronta in prima linea ad una battaglia contro la sinicizzazione del mondo. Cioè, ci sembra, con il neoliberismo morente di una estenuante e protratta morte sotto il peso delle rivolte di massa che chiedono la secessione dai regimi globali neoliberali, la variante cinese dello stato autoritario di sorveglianza, corredata da una gamma di campi di carcerazione e istituzioni pseudo legali, è l’unico mezzo attraverso cui il mondo così come lo conosciamo può essere mantenuto in piedi attraverso una forza coercitiva. Non siamo gli unici ad avere questa impressione; non molto tempo fa su Dialectical Delinquents apparve un’intervista con un dirigente della Huawei che è illuminante nella sua sincerità.

Come abbiamo descritto nella nostra precedente intervista, Xinjiang viene dimenticata da tutti, e l’orrore di Xinjiang, accompagnata alla rapida introduzione di apparati di sorveglianza in tutta la città, dona alle lotte uno spiccato sapore apocalittico: è ribadito più e più volte che se non vinciamo ci ritroveremo nei campi d’internamento. In generale ci troviamo d’accordo con questo, ma è un imperativo riconoscere il fatto che stiamo conducendo lo stesso “combattimento corpo a corpo” [Agamben, Che cos’è un dispositivo?]contro questi apparati così come innumerevoli altri ribelli in giro per il mondo – che la Cina non è il grande male da cui il “mondo libero” potrebbe liberarci, l’Anticristo che dobbiamo abbattere ad ogni costo, piuttosto un’ombra dal futuro che incombe su in pianeta che si sta sgretolando.

È inutile dire che la Cina rappresenta anche una distrazione gradita al pubblico occidentale, offrendo ai governi dei paesi dell’Ovest l’opportunità di denigrare gli eccessi cinesi per ostentare il loro impegno nei “diritti umani” mentre continuano a rinchiudere e assassinare la loro stessa popolazione.

Parliamo delle tensioni e delle contraddizioni interne al movimento. Fuori Hong Kong abbiamo ascoltato molto a proposito di manifestanti che mostrano la bandiera britannica, che cantano l’inno nazionale americano, che condividono il meme di Pepe the frog, che utilizzano altri simboli del nazionalismo occidentale. Quanto è stato visibile tutto ciò a partire dal terreno interno al movimento? Ci sono state resistenze?

Siamo sicuri che molti di voi avranno visto immagini dell’azione che ha avuto luogo una settimana fa, nella quale diverse persone si sono riunite fuori l’ambasciata americana in sfarzoso abbigliamento Black Bloc, sventolando bandiere americane, cantando l’inno nazionale U.s.a. ed esortando la Casa Bianca a far approvare un atto su Hong Kong nel più breve tempo possibile. Questo ci ha portato alla conclusione tragicomica che Hong Kong potrebbe essere l’unico posto al mondo dove i Black Bloc sventolano bandiere americane.

Vari “portatori di bandiera” sono sprezzanti verso le critiche che gli vengono dirette; questo aspetto caratterizza in generale chi supporta i continui appelli alla Casa Bianca. Quando un compagno dagli Stati Uniti ci è venuto a far visita recentemente, si è vicinato ai porta bandiera e non ha fatto segreto del suo disprezzo per il proprio governo. “Si fottano gli Stati Uniti!”, è stata la sua concisa osservazione introduttiva, prima di andare ad approfondire l’argomento degli omicidi commessi quotidianamente dalla macchina di stato americana. Questo scambio è stato immortalato da una stampa studentesca ed è circolato su Facebook per qualche ora, generando discussioni e dibattiti. Molti dei commenti si sono rivelati eloquenti: hanno liquidato il nostro compagno americano come la “la variante americana della plastica di sinistra” (un insulto diretto verso persone di sinistra antiquate, spiegata nella nostra [intervista]](https://crimethinc.com/2019/06/22/hong-kong-anarchists-in-the-resistance-to-the-extradition-bill-an-interview) precedente) e lo hanno accusato di essere un ignorante. “Pensi sul serio che siamo patrioti americani? Stiamo solo cercando di essere pratici, facendo appello a qualcuno che ci possa veramente aiutare!” Hanno continuato ad insistere che cantare l’inno americano, sbandierare la bandiera U.s.a., e dichiarando pubblicamente quanto ammirino lo stile di vita americano, sono semplici e calcolati appelli al potente sentimentalismo degli effettivi patrioti americani (Alcuni tra quest’ultimi hanno veramente fatto un viaggio ad Hong Kong, come ad esempio l’organizzatore fascista Joey Gibson, che se l’è spassata a scattarsi selfies con manifestanti inconsapevoli, semplicemente molto lieti di ammirare una testa calda americana che sventola la bandiera e che si è mostrato simpatizzante verso la causa).

Gli “sventolanti bandiere americane” pretendono che coloro che li criticano siano semplicemente ingenui: non sono consapevoli del fatto che il messaggio che stanno inviando è doppiamente codificato. Durante l’anniversario dell’11 settembre, qualcuno ha proposto un’interruzione delle proteste in ricordo di coloro che hanno perso la vita durante l’11 settembre – un’altra mossa astuta finalizzata ad accaparrarsi le simpatie americane. Per quanto questi attori si possano immaginare svegli grazie alla loro astuta comprensione della Realpolitik, sono una barzelletta – e, alla fine, lo siamo anche noi se non siamo in grado di rompere questa fascinazione continua con la messinscena del braccio di ferro tra i “poteri forti” del mondo.

Molti amici occidentali ci hanno chiesto ripetutamente se questo sentimento sia condiviso da una grande fetta delle lotte, o se questa fissazione con l’occidente sia solo un fenomeno marginale. Mettiamola così: al momento presente, qualsiasi cosa che abbia una qualsiasi relazione con la Cina rappresenta un facile bersaglio per lo sfregio e la profanazione – le insegne governative sono distrutte, le bandiere strappate dai loro pali e gettate nell’acqua, le sedi delle banche e addirittura le compagnie assicurative che recano il nome “Cina” sono coperte da scritte, le tapparelle di “China Life Insurance” sono state recentemente vandalizzate con la scritta “non voglio una vita cinazi.” Se invece una vetrina recante un’iconografia visibilmente americana venisse attaccata alla stessa maniera (diciamo da noi), abbiamo paura che, realisticamente, verremmo fermati.

Dobbiamo anche aggiungere che purtroppo ultimamente non sono solo le bandiere americane ad essere avvistate nelle proteste, ma anche le bandiere degli altri “amichevoli” membri del G20 – Canada, Germania, Francia, Giappone, Regno Unito e così via – con la triste apparizione la settimana scorsa anche di una bandiera ucraina, presumibilmente perché diverse proiezioni di “Winter of Fire” hanno avuto luogo in piazze pubbliche, e la platea non ha una conoscenza adeguata di tutto ciò che quel documentario strategicamente omette.

Allo stesso tempo, hanno avuto luogo costanti campagne atte a sollecitare il Regno Unito ad assumersi la responsabilità dei bambini abbandonati che ha dimenticato emanando ancora una volta passaporti BNO (British National Overseas) a cittadini di Hong Kong. Sebbene questo passaporto non garantisce al suo possessore né il diritto di residenza nel Regno Unito, né la tutela consolare, per molti sembra incarnare l’unica speranza di fuggire da una città che molti stanno iniziando a considerare una trappola mortale. “Preferirei essere un cittadino di seconda o terza classe in uno stato occidentale piuttosto che essere gettato in un campo di correzione del pensiero,” qualcuno ha scritto alcune settimane fa in una discussione su di una message board.

Visto sotto questa luce, lo sventolare di bandiere occidentali sembra meno un abile atto di furbizia strategica e più un disperato e devoto appello ad un salvatore onnipotente. Questa miscela mortale di paura e ingenuità – che si nutrono e si compongono l’un l’altra – è esattamente quello che stiamo cercando di combattere. Recentemente i nostri amici americani ci hanno suggerito uno slogan meraviglioso che speriamo si diffonda dappertutto: “Cinazi e Amerikkka: due paesi, un solo regime.”

Quali istituzioni e mitologie hanno perso la loro legittimità all’occhio pubblico nel corso dei disordini? Quali invece hanno mantenuto o addirittura rafforzato la loro legittimazione? Puoi descrivere i successi ed i fallimenti degli sforzi nel criticare queste istituzioni e narrazioni, o al limite anche solo parlarne?

Come abbiamo descritto nell’intervista precedente, per molti anni si è creduto che ci fossero due percorsi nelle lotte sociali: da una parte proteste pacifiste, civiche ed eleganti, accessibili alle casalinghe, agli anziani e a tutti coloro che non possono correre il rischio di venire arrestati, e dall’altra una partecipazione aggressiva e belligerante di prima linea, impiegando vari tipi di azione diretta. Questi due sentieri persistono tuttora, ma ciò che nella situazione attuale non ha precedenti è che entrambi ora sono illegali: il governo respinge ogni autorizzazione delle manifestazioni e ogni assemblea è de facto proibita, per quanto innocua essa possa essere. Il semplice trovarsi fisicamente presenti o vicini ad un’assemblea illegale già costituisce di per sé motivo di arresto e detenzione. Nel mentre ci si trova seduti in metropolitana o sul bus per tornare a casa, non si può mai sapere se squadre antisommossa assalteranno il veicolo e piccheranno a morte chiunque si trovi a bordo, se i vigilanti abbiano fatto una soffiata alle guardie o vi seguano a casa, se le triadi si trovino in giro quando fai tardi la notte.

Prendere posizione ti rende un corpo che può venire sfigurato, torturato e – si ritiene – ucciso, da coloro le cui azioni sono autorizzate in nome dell’“ordine”. Come i guardiani dell’ordine precisano, noi siamo “scarafaggi”, parassiti da sterminare ed eliminare, in modo che gli affari possano procedere come di consueto.

In più, dimostrare simpatia per le lotte può inoltre lasciarti disoccupato se lavori per una compagnia che ha legami di lunga data con il mercato cinese. Si consideri la grande visibilità del caso della Cathay Pacific, la cui alta dirigenza ha richiesto una lista dei membri del sindacato che hanno partecipato al movimento o aiutato a far trapelare informazioni della polizia; questa compagnia sta cioè eseguendo una radicale epurazione di sostenitori delle lotte all’interno del suo staff, portata avanti da spie in cerca di carriera all’interno dello stesso gruppo.

Gli stessi professori che ti hanno dato ripetizioni in algebra qualche mese fa potrebbero aiutare a farti arrestare; presidi e capi dipartimento stanno a guardare nel momento in cui squadre antisommossa catturano te e i tuoi amici al di fuori dell’edificio scolastico. Questa è la realtà a cui i manifestanti si sono dovuti abituare in fretta. Come conseguenza, si sono sviluppate velocemente reti di mutuo soccorso per affrontare la situazione, offrendo occupazioni, ripari, trasporti e pasti a coloro che ne hanno bisogno.

In breve: il futuro, come orizzonte di avvenimenti prevedibili, come percorso di piani e progetti realizzabili e anticipabili, è collassato, e ci ritroviamo a dover interpretare, letteralmente, momento per momento, le mappe disegnate in tempo reale da cartografi volontari, che ci raccomandano le stazioni da evitare, quali strade aggirare, quali quartieri siano al momento sotto il gas della polizia. La stessa vita quotidiana diventa una serie di manovre tattiche, dal momento che ognuno deve fare molta attenzione a quello che dice a pranzo nei bar o nelle mense, per non venire ascoltati e segnalati; si sperimentano inoltre modi diversi di non pagare la corsa in metro senza dare nell’occhio, si inventano codici da usare nella messaggistica istantanea o sui social media per evitare di venire decodificati velocemente. È abbastanza incredibile che così tante persone siano disposte a rinunciare ai comfort e le comodità della metropoli, alla gioia dell’anonimato nel mentre fanno i loro affari. È necessario trovare e mantenere la clandestinità in altri modi.

È però impossibile negare che, nonostante tutto, l’inventiva e l’avventura riempiono i particolari delle nostre vite che si stanno svegliando.

Cosa sarebbe necessario affinché i disordini si diffondano sulla terraferma, in Cina – se non in questo momento, comunque nel prossimo futuro? O le stesse premesse del movimento rendono impossibile qualcosa del genere?

Per prima cosa, ci sarebbe richiesto di confrontarci con il fatto puro e semplice che Hong Kong deve alla Cina molto del nostro cibo e della nostra acqua. Solo questo dovrebbe rendere evidente che ogni rivolta efficace qui deve necessariamente coinvolgere un supporto attivo dei compagni delle aree attorno ad Hong Kong. Proprio un imperativo pratico del genere troverebbe qui un’audience più facilmente piuttosto che attraverso argomenti astratti, dal momento che gli abitanti di Hong Kong sono famosi per avere poca pazienza per discussioni ideologiche.

Qui dovremmo notare che questo punto è molto spinoso; molti nel nostro collettivo suggeriscono che questa dipendenza dalla Cina è un motivo di forte risentimento per molte persone ad Hong Kong, specialmente dal momento che rappresenta una conseguenza di scellerate misure politiche che hanno visto il graduale decimarsi delle terre coltivabili nelle zone nord est di Hong Kong, fenomeno che è stato permesso per fare spazio a zone residenziali spesso soggette a speculazioni straniere (e della terraferma). Per non parlare del tremendo accordo di importazione dell’acqua che abbiamo con Guangdong. Dunque – questa dipendenza semplicemente rinforza la passione per l’indipendenza e la sovranità, piuttosto che attenuarla.

Un altro passo necessario sarebbe quello di lasciarsi alle spalle le fantasie che Hong Kong sia un luogo eccezionale, il fatto che le persone immaginino la città come un mercato liberal di caratura mondiale popolato da persone libere di mente, cosmopoliti amanti della libertà, in contrapposizione con i leccapiedi, rozzi e indottrinati contadini del nord. Per quanto possa sembrare banale, abbiamo il compito di svuotare “l’identità di Hong Kong” di ogni contenuto positivo – tutte le sue pretese ci civilizzazione, urbanismo, e illuminismo – al fine di fare largo alla completa negatività di una rivolta proletaria, che potrebbe tagliare decisamente la disgregante confusione generata dai governi di entrambi i lati del confine. C’è comunque da dire che ogni qualvolta si sia verificato uno sconvolgimento o sia arrivato un resoconto di un “incidente di massa” in Cina durante queste lotte, le persone hanno prestato la massima attenzione.

Molti hanno anche sperimentato percorsi originali per “contrabbandare” informazioni agli abitanti della terraferma, arrivando addirittura ad editare video porno su siti cinesi per adulti, sostituendovi delle riprese di brutalità poliziesche avvenute ad Hong Kong. Questo ci rimanda con la memoria alla nostra ribellione cinese preferita dei vecchi tempi, in cui informazioni di contrabbando sono circolate attraverso pergamene nascoste in focacce e dolci.

Come abbiamo accennato prima, ci sono alcuni che apertamente sostengono l’”indipendenza” e l’“autonomia” di ogni regione cinese, la balcanizzazione del paese che seguirebbe il collasso del partito comunista (avendo la precedenza quest’ultimo, ed essendo vista la prima solo come una conseguenza favorevole).

Mentre per altri un’eventualità più plausibile, considerando come i popoli oltre il confine sono spesso immaginati come pecorelle smarrite sorvegliate da un onnipotente pastore, sarebbe la speranza che la sovranità di Hong Kong possa venir sostenuta dalla minaccia di una forza militare internazionale, il suo confine presidiato, in modo tale che il nostro destino possa essere slegato da quello cinese.

Smantellare questa matrice ideologica e minare le basi dell’identità culturale di Hong Kong a favore di un pericoloso lavoro transnazionale (cross-border work) è profondamente spiacevole e impopolare. A dire la verità, pochi di noi sanno come andare in giro a farlo su vasta scala, specialmente dal momento in cui tutti i canali d’informazione della terraferma sono soggetti ad ampli controlli. I nostri amici in Cina si sono lungamente sforzati a disseminare informazioni riguardo queste lotte su message boards e social media, ma queste informazioni sono spesso rimosse tempestivamente e i loro accounts velocemente bannati.

Puoi immaginare quanto possa essere scoraggiante questo compito, venendo le difficoltà anche ingigantite dalla loro urgenza – specialmente ora che moltitudini stanno iniziando ad intonare in coro reinterpretazioni dell’“inno nazionale di Hong Kong” in aree pubbliche.

Fateci un riassunto delle tattiche e innovazioni tecniche che si sono verificate nell’arco degli ultimi mesi e su ciò che di nuovo, e prima considerato impossibile, hanno permesso di fare ai partecipanti. Immaginate di rivolgervi a persone che si troveranno in una situazione simile alla vostra prima o poi nel futuro.

Anche ad anni da questo momento, siamo sicuri che continueremo a guardarci indietro e a meravigliarci di tutte le cose incredibili che sono emerse in risposta ai problemi concreti che gli insorti hanno fronteggiato nel corso degli ultimi tre mesi.

In risposta al problema degli adolescenti che non avevano più una casa a cui tornare, dal momento che vengono praticamente diseredati dai loro genitori dopo aver partecipato alle manifestazioni ed essere rimasti per strada dopo la dichiarazione dello stato d’emergenza, varie persone hanno creato una rete di appartamenti in cui i manifestanti più giovani potevano ritirarsi e rimanere temporaneamente. In risposta al fatto che i minibus, gli autobus e i treni della metropolitana non erano più luoghi sicuri per permettere ai manifestanti di scappare, è stata creata una rete di carpooling su Telegram per “riprendere i ragazzi da scuola.” Abbiamo incontrato anche guidatori più anziani che non sapevano neanche usare Telegram, ma che hanno guidato costantemente attorno ai “punti caldi” dichiarati dalle notizie radio, stando attenti a trovare dimostranti a cui serviva un passaggio veloce lontano dal pericolo.

In risposta al fatto che vari giovani in prima linea non avevano un lavoro o abbastanza soldi per comprarsi da mangiare, alcuni lavoratori hanno reso disponibili approvvigionamenti del supermercato e coupons di ristoranti e li hanno distribuiti alle persone in equipaggiamento prima degli scontri su larga scala.

Questo fatto incredibile viene spesso utilizzato dai conservatori per suggerire che ci siano dei poteri stranieri dietro questa “rivoluzione colorata,” perché…da dove arriverebbero tutti questi soldi per i coupons? Ci dev’essere sicuramente qualcuno che sta finanziando tutto!” Non possono neanche comprendere il fatto che ogni lavoratore potrebbe voler arrivare al proprio portafogli per aiutare una persona che neanche conosce.

In risposta alle sofferenze, i traumi, l’insonnia provocati dall’esposizione per lungo tempo ai gas lacrimogeni e alla violenza poliziesca, sia essa stata esperita di prima mano o attraverso dirette live, si sono sviluppate diverse reti di supporto che offrono consigli e cure. In risposta al fatto che vari ragazzi non hanno abbastanza tempo per svolgere i loro compiti perché si trovano per strada tutta la notte, sono apparsi diversi canali Telegram che offrono servizi di lezioni private gratuite. In risposta agli studenti che “non possono avere accesso ad un’educazione” perché in sciopero, diverse persone hanno organizzato seminari in spazi pubblici, su tutti i tipi di argomenti politici sensibili alla causa.

Contemporaneamente, altre persone hanno creato dei gruppi su Telegram per discutere gli argomenti su cui i dimostranti si sono dimostrati curiosi; stiamo sul punto di iniziarne uno anche noi. L’argomento potrebbe essere di stampo tecnico (come fare a pezzi una macchina dei biglietti della metro, come passare attraverso un tornello senza pagare), di argomento storico (recentemente abbiamo assistito ad uno sulla Rivoluzione francese), potrebbe essere spirituale, o ancora sull’autodifesa e le arti marziali.

Tutti questi sforzi tolgono il fiato nella loro ampiezza ed efficacia. Gruppi di affinità si formano per costruire Molotov e testarle nelle foreste. Altri sviluppano amicizie e fiducia giocando a giochi di guerra nelle foreste, configurando simulazioni di scontri a fuoco con la polizia. Dojo improvvisati di arti marziali sono tenuti nei parchi e sopra i tetti delle case. Pensa qualsiasi cosa riguardo alle persone in questa città, ma non si può mettere in dubbio il fatto di quanto siano fuori dal comune nel risolvere problemi pratici senza alcun problema. Questa lotta ha inoltre giocato un ruolo educativo per ognuno che vi abbia partecipato. È una pedagogia fenomenologica in cui la città che abitiamo ha acquistato un significato completamente nuovo attraverso lo svilupparsi delle lotte – ogni aspetto di ogni città ha assunto un profondo significato tattico. Devi sapere quali zone sono frequentate dalle triadi; ogni curva della strada e vicolo cieco possono fare la differenza nell’uscire tutto di un pezzo da una manifestazione. Nell’arco degli ultimi mesi ci siamo ritrovati in quartieri che ci erano estranei, ma anche i quartieri dove siamo cresciuti tutta la vita ci diventano estranei nel momento in cui fuggiamo sotto le cariche delle squadre antisommossa o quando leggiamo con attenzione le discussioni sulle message boards zeppe di storie condivise da coloro che, grazie al loro posto di lavoro o background, sono profondamente al corrente di aspetti della città a cui altrimenti non potremmo mai aver accesso. Associate questo con le straordinarie mappe in tempo reale disegnate da diversi teams, indicanti zone di pericolo e vie di fuga, e potrete iniziare a cogliere come negli ultimi tre mesi si sia fatto un accelerato tour psicogeografico e cartografico della città, il cui valore è inestimabile sia per questa battaglia che per quelle a venire.

Certamente, in fin dei conti, non è semplicemente una questione di chi si trova per strada; ce ne sono molti, anche nel nostro collettivo, che, per varie ragioni, preferiscono non trovarsi lì durante gli scontri in strada. Il monumentale contributo di coloro che disegnano le mappe e forniscono informazioni in tempo reale da lontano, verificando instancabilmente la precisione dei dati che vengono continuamente trasmessi da svariati canali, è stato determinante nel garantire l’incolumità di compagni e l’eliminazione di notizie false (certi accounts sulle message boards, ad esempio, diffondono informazioni false in maniera continuativa e regolare, fatto di cui non si conosce ancora lo scopo). È inoltre significativo che molti trovano il tempo, anche dopo combattimenti estenuanti in strada, di discutere collettivamente le tattiche più dettagliate sui canali Telegram e sulle message boards, apertamente e con spirito fraterno. Questo è ciò che permette di realizzare ogni progetto di azione – che sia bloccare una linea della metropolitana, un’autostrada per l’aeroporto o l’aeroporto stesso – anche se, come nel caso della linea della metro, i primi tentativi erano incerti e fallimentari.

La volontà di realizzare degli obiettivi deve venire associata alla determinazione collettiva di creare l’infrastruttura di informazioni che la può rendere possibile.

Cosa possono fare le persone da fuori Hong Kong per supportare gli arrestati ed i prigionieri di questo movimento – in particolare gli anti-autoritari? C’è qualcosa in particolare che vi piacerebbe vedere in vostro supporto da solidali sparsi per il mondo?

Nei prossimi giorni, divulgheremo delle informazioni a proposito di un’azione di solidarietà globale che stiamo cercando di coordinare con alcuni amici d’oltreoceano. Tenetevi aggiornati da qui!

Inoltre, sarebbe estremamente d’aiuto se voi poteste pubblicare la vostra letteratura circa la situazione che stiamo fronteggiando a questa altezza storica, riguardo la Cina e lo sviluppo continuo di tecnologie di sorveglianza in tutto il mondo. Non possiamo permettere che la narrativa di queste lotte si focalizzi semplicemente sulla denuncia altamente moralista del Partito Comunista. Il partito è assolutamente degno di disprezzo, ma non dobbiamo immaginare che il male del mondo sia concentrato in Cina, non possiamo permettere che questo farsesco facsimile della guerra fredda, con la sua ridicola divisione tra gli onesti cittadini del “mondo libero” e le sentinelle di 1984, ci distolga dalle esigenze del nostro tempo e dal progetto di accelerare la rovina di ogni cosa che continua a separaci dalla vita che ci aspetta.

Diffondi lo spirito della presa in giro proletaria. Ridiamo in ogni linguaggio che conosciamo!